5 Settembre/ 10 Ottobre 2015
Giovanni Badodi nasce a Reggio Emilia nel 1937. Si occupa da sempre di fotografia ed è conosciutissimo nell’ambiente degli addetti ai lavori e dal pubblico reggiano.
La produzione che questa mostra vuole presentare sono le fotografie dei luoghi normalmente chiusi e non accessibili o addirittura scomparsi della città di Reggio Emilia.
Il titolo è una chiave di lettura dell’ expò quasi sibillina: “…la realtà improvvisamente si rabbuia, smettono i suoni delle risa e gli applausi scroscianti. Calvero ora guarda alla platea, nel silenzio assordante. Gli spettatori non ci sono più: è un uomo solo…”
Badodi dà visione e luce a questi palcoscenici, vecchi edifici sempre chiusi, su cui si sono spente le luci del successo ed è ricaduta una polvere spessa; edifici che ricordano il vecchio attore rimasto solo nel ricordo dei tempi migliori.
Così l’ ex O. P. G., Palazzo Masdoni ( ex sede P.C.), la Chiesa di Villa Cella, la Chiesa di San Niccolò e tanti altri in una serie corposa di 25 scatti fotografici, vengono riaperti inaspettatamente dalla ricerca documentativa e storica dell’ artista.
Perchè una mostra di questo genere in tempi in cui resiste a stento la fotografia per lasciare il posto all’ installazione ?
Perchè …” Nulla finisce. Cambia soltanto. ” dice l’attore Calvero nel più famoso ” Luci della ribalta “e, ribadisce in altra scena, ” Sprecare l’ amore per un vecchio? L’ amore non è mai sprecato. “
La mostra di Giovanni Badodi vuole infatti essere anche percorso antropologico: questi luoghi disabitati sono stati palcoscenici di vita su cui si è ora spenta la luce; irresistibile è la speranza che qualche sopravissuto di tempi andati voglia raccontare a chi è più giovane una storia vissuta in luoghi così vicini, ma ora inaccessibili.
Una mostra che può fornire diversi motivi di riflessione: la fotografia è ” senza avvenire “, patetica e malinconica, in contrappunto col cinema che è ” proteso ? ( Barthes, La camera chiara, 1980 ).
Le arti visive tecnologiche possono essere chiuse entro barriere linguistiche e strutture cronologiche? E chi si arroga il potere di fare questo?
Per fortuna l’ arte non conosce confini e finchè c’è libera arte c’ è vita.
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